Sotto il cielo bruciante dell’Africa, Albus e Gellert avanzavano lungo il sentiero sabbioso di un antico villaggio nascosto tra le dune e la giungla. Il calore era opprimente, ma i due ragazzi non sembravano farci caso, rapiti com’erano dalle parole l’uno dell’altro. Gellert, con i suoi capelli chiari e lo sguardo tagliente, parlava della magia con un entusiasmo quasi febbrile. Albus, affascinato e inquieto allo stesso tempo, seguiva i suoi discorsi come un assetato nel deserto.
"È qui, Albus," sussurrò Gellert con un sorriso affilato, fermandosi davanti a un antico tempio abbandonato. Le colonne erano annerite dal tempo, e strani simboli erano scolpiti nella pietra. "Qui troveremo la verità sui Doni della Morte. Finalmente la prova che tutto ciò che è scritto non è solo leggenda."
Albus si avvicinò, sentendo la pelle d’oca sulle braccia. "Se esistono davvero," rispose piano, "allora il potere della morte non sarà più un limite per nessuno noi."
Gellert sorrise, con uno sguardo che brillava di una determinazione quasi sinistra. "Non per nessuno di noi… ma per pochi eletti, quelli che comprendono la vera essenza della magia." Fece un cenno ad Albus, e i due ragazzi si avventurarono nell'oscurità del tempio.
Avanzarono cauti tra i corridoi stretti, illuminando il loro cammino con i loro incantesimi. L’aria era fredda e stagnante, e l’eco dei loro passi sembrava amplificato dal silenzio antico del luogo. Dopo alcuni minuti, giunsero a una vasta sala circolare. Al centro, su un piedistallo di pietra consumata, c’era un antico dipinto. Raffigurava tre figure incappucciate, ciascuna con un oggetto tra le mani: una bacchetta, una pietra e un mantello.
Albus si fermò, affascinato. "I Doni…" mormorò. "Le loro forme sono identiche a quelle della leggenda…"
"Sì, e sono reali," sibilò Gellert, stringendo i pugni con esaltazione. "Immagina cosa potremmo fare con quel potere, Albus! Niente limiti, non più morti inutili, non più oscurità… solo il nostro dominio, il controllo assoluto sulla vita e sulla morte."
Albus, sebbene profondamente attratto da quella visione, sentiva un sottile filo di paura insinuarsi nel suo petto. "Ma a quale costo, Gellert? La morte è parte della vita… domare la morte potrebbe… potrebbe distruggerci. È questo che vogliamo davvero?"
Gellert scosse la testa, ridendo piano. "Oh, Albus… mi stupisce che un mago del tuo calibro parli di costi e rischi. Il potere vero non si preoccupa di tali sciocchezze. Noi siamo al di sopra di tutto questo. Tu e io siamo destinati a qualcosa di più grande, qualcosa di eterno."
Per un istante, Albus si ritrovò a guardare il suo amico con una sorta di venerazione. Gellert era tutto ciò che lui aveva sempre voluto essere: audace, sicuro, privo di scrupoli. Eppure, nel profondo, Albus percepiva un'oscurità in lui, una fame senza fondo che sembrava minacciosa, e forse perfino letale.
Gellert si voltò verso il dipinto, e Albus notò che stava tracciando con la mano un simbolo: un triangolo con un cerchio al centro e una linea verticale. "Il simbolo dei Doni," spiegò con un sussurro esultante. "Da oggi sarà il nostro emblema, Albus. Diventeremo i maestri della morte stessa."
Albus esitò, ma alla fine sollevò la mano e ripeté il gesto, sentendo una scintilla di eccitazione e un brivido di paura. "Sì," mormorò, quasi senza volerlo. "I maestri della morte."
Gellert gli lanciò uno sguardo soddisfatto. "Finalmente lo comprendi. Insieme, Albus, conquisteremo ogni limite che il mondo magico ha cercato di imporre. Tu sei una delle poche menti degne di camminare al mio fianco."
Le parole di Gellert riecheggiarono nelle orecchie di Albus, lasciandolo diviso tra l’adorazione e la paura. Desiderava ardentemente il potere che Gellert prometteva, eppure non poteva fare a meno di chiedersi quanto sarebbero stati disposti a sacrificare, quanto lontano Gellert avrebbe spinto entrambi nella sua brama insaziabile. Ma, ancora una volta, Albus mise a tacere i dubbi che lo tormentavano. In fondo, era giovane, ambizioso, e aveva fame di conoscenza, di grandezza, di immortalità.
Mentre uscivano dal tempio, Gellert si voltò verso di lui, gli occhi colmi di una luce febbrile. "Un giorno, Albus, tutti conosceranno i nostri nomi. E quando quel giorno arriverà, nessuno oserà più temere la morte. Sarà sotto il nostro comando."
Albus annuì, perdendosi per un attimo nell’euforia dell’amico, senza capire che, a ogni passo verso quella visione di gloria, stava abbandonando un pezzo della sua anima.
La luce del tramonto filtrava tra gli alberi secolari della foresta, tingendo l’aria di sfumature dorate e vermiglie. Albus avanzava in silenzio tra i tronchi maestosi, lasciandosi guidare solo dal fruscio delle foglie e dal battito irregolare del suo cuore. Gli anni erano trascorsi, eppure ogni passo sembrava riportarlo a quell’unico istante: il ricordo di Ariana, della sua innocenza, dei suoi occhi vacui, l'ultimo respiro spezzato in un sussurro che non avrebbe mai dimenticato.
Ogni notte, quel ricordo lo tormentava come un incantesimo oscuro che nessuna magia avrebbe potuto dissipare. Era quello, il peso che lo inchiodava al mondo, il macigno che tratteneva la sua anima dalla pace e dall’accettazione. A volte, nel silenzio, poteva ancora sentire il riso esaltato di Gellert e il proprio respiro affannato mentre la rabbia e la disperazione montavano, portandoli alla tragedia. Ma più di ogni altra cosa, c'era quel dubbio, terribile e insinuante, che lo divorava: era stata la sua mano a uccidere Ariana?
Scosse la testa, cercando di scacciare quei pensieri, e si concentrò sulla foresta, su quella quiete antica che lo circondava. Era venuto lì per cercare risposte, per trovare un frammento di pace che lo liberasse dalla morsa dei ricordi. Eppure, il dolore restava aggrappato a lui, come la sua ombra.
All’improvviso, un leggero bagliore tra i rami lo fece fermare. Una luce calda, pulsante, si era accesa in lontananza, sospesa a mezz'aria. Albus si avvicinò lentamente, con il respiro trattenuto, finché non poté distinguere la figura maestosa di un uccello fiammeggiante. Era una creatura che non aveva mai visto prima, una creatura il cui splendore pareva celare segreti millenari.
Una fenice.
Albus la osservò, incantato. Il piumaggio rosso vivo si muoveva in onde delicate, come una fiamma che non bruciava. L'uccello lo fissava con occhi profondi e intelligenti, pieni di una saggezza antica, e lui sentì un conforto inspiegabile, una quiete che non provava da tempo. Era come se la fenice vedesse dentro di lui, come se comprendesse ogni sua colpa, ogni sua paura, e la accogliesse senza giudizio.
“Sei venuta per portare via il mio dolore?” Mormorò Albus, come in un sogno.
La fenice emise un suono dolce, una melodia che sembrava provenire dalle profondità della terra. Era un canto di bellezza e speranza, un richiamo che penetrava nel suo cuore, illuminando le parti più oscure del suo spirito. In quella musica c’era un messaggio, un invito a risorgere dalle proprie ceneri, a rinascere dalla sofferenza e dall’errore.
Mentre la melodia proseguiva, Albus sentì le lacrime bagnargli il volto, liberandolo per la prima volta dal peso della colpa che portava dentro. "Non posso cambiare il passato…" sussurrò, più per sé stesso che per la fenice. "Non posso riportarla indietro. Eppure… ho paura di sapere. Ho paura di affrontare Gellert, di guardarlo negli occhi e scoprire… di scoprire che…"
Ma non riuscì a completare la frase. La fenice si avvicinò a lui, appoggiando delicatamente una piuma sul suo cuore. Sentì un calore profondo diffondersi in lui, come se un frammento di quella luce si fosse posato nella sua anima, donandogli una nuova speranza. La fenice aprì le ali con grazia, avvolgendolo in un abbraccio di fuoco, e Albus percepì una promessa silenziosa: il coraggio di affrontare le ombre che lo perseguitavano, la forza di guardare negli occhi la verità.
Rimase lì, in silenzio, mentre la fenice sollevava il capo verso il cielo, lanciando un canto che si librò alto, inondando la foresta di una luce purificatrice. Quando l’uccello si allontanò, Albus capì che qualcosa dentro di lui era cambiato. La paura non era sparita del tutto, ma sentiva una nuova determinazione: avrebbe affrontato Gellert, avrebbe scoperto la verità su Ariana, e soprattutto avrebbe trovato il modo di combattere non per il proprio potere, ma per proteggere il mondo dal terrore che una volta aveva contribuito a sognare.
Avrebbe portato con sé quella nuova fiamma, quella speranza, e un giorno sarebbe tornato nella foresta per ringraziare la sua nuova alleata, la sua compagna. La fenice lo avrebbe accompagnato, lui ne era certo, come simbolo della sua rinascita, e come guida verso la redenzione.
La cima dell'Untersberg, immersa in una nebbia densa e spettrale, pareva un luogo fuori dal tempo. Le leggende lo descrivevano come la montagna dei segreti, dimora di antichi poteri e di storie dimenticate. Ma quella sera, tra il crepuscolo e la notte, un’energia nuova si agitava tra le rocce: un silenzio teso, l'attesa di uno scontro che avrebbe cambiato il mondo.
Ai piedi della montagna, un gruppo di maghi seguaci di Albus Silente si era radunato, osservando con trepidazione la vetta lontana e avvolta nella foschia. Sapevano che lassù si trovavano i due maghi più potenti della loro epoca, un tempo amici inseparabili, ora nemici inesorabili.
Silente si trovava fermo su una sporgenza, il mantello mosso dal vento freddo che spirava tra le vette. Sentiva la potenza di quel luogo antico, e in un certo senso gli sembrava giusto che il confronto finale avvenisse lì, in uno scenario selvaggio e senza tempo, simile all’animo di chi si apprestava a combattere.
Di fronte a lui, Gellert Grindelwald sorrideva con una sicurezza sfacciata, la bacchetta di sambuco stretta nella mano. L’antico legame che li aveva uniti sembrava ormai un’ombra lontana, una fiamma ormai spenta. Negli occhi di Gellert non c’era più il giovane sognatore che Albus aveva conosciuto, ma solo il volto di un uomo divorato dalla brama di potere.
“Ti vedo ancora titubante, Albus,” esordì Grindelwald, la voce un sibilo di scherno. “Ancora con i tuoi vecchi dubbi, la tua morale soffocante… Eppure siamo qui, alla fine. Non ti sei stancato di essere il pastore della mediocrità?”
Silente restò in silenzio, ma dentro di sé sentiva il dolore mescolarsi a un’indignazione crescente. Era stato lui, dopotutto, a essere stato ingannato, a essere trascinato in quel sogno folle. E la visione di Ariana, la sorella innocente che avevano perso per sempre, tornava a tormentarlo, un richiamo continuo al dovere che ora sentiva.
“Non è troppo tardi, Gellert,” disse Silente con voce ferma, ma carica di tristezza. “Abbiamo sbagliato, entrambi. Abbiamo ceduto alla superbia. Possiamo ancora porre fine a tutto questo, prima che altri vengano trascinati nel nostro disastro.”
Grindelwald rise, una risata amara e distorta. “Porre fine? No, Albus. La fine è solo per chi è troppo debole per vedere il vero potere. Noi siamo al di sopra della morale, dei limiti, delle leggi degli uomini. Possiamo riscrivere il mondo.”
Silente sollevò la bacchetta e sentì la magia fluire attraverso di lui, un’ondata di energia che pareva rispondere alla rabbia e al dolore accumulato. “Se insisti,” disse con una freddezza quasi glaciale, “allora non ho altra scelta.”
Grindelwald non rispose. Si limitò a sollevare la bacchetta di sambuco e, con un sorriso beffardo, lanciò un incantesimo oscuro. Una scia di fuoco nero si librò nell'aria, dirigendosi verso Silente con velocità letale. Silente alzò un braccio, evocando un muro di ghiaccio che si spezzò sotto l’impatto ma riuscì a disperdere le fiamme. La battaglia era iniziata.
I due maghi si muovevano come danzatori, incantesimi letali e barriere protettive esplodevano nell'aria in una sinfonia di luci e ombre. Il cielo sopra di loro si scurì, come se la stessa notte si fosse fermata a osservare il loro scontro.
Albus lanciava incantesimi brillanti e intensi, che vibravano di una bellezza quasi dolorosa. Cercava di immobilizzare Grindelwald, di porre fine alla battaglia senza infliggergli troppo dolore. Ma ogni volta, Gellert rispondeva con una magia ancora più crudele, forgiata da anni di pratica nelle arti oscure, che sembrava voler spezzare ogni resistenza.
Alla fine, Silente si trovò esausto, ferito, ma ancora saldo. Guardava Grindelwald e vedeva ormai solo un’ombra del giovane che aveva conosciuto. Doveva porre fine a tutto questo.
Gellert sollevò la bacchetta di sambuco e lo guardò con una superiorità glaciale. “Credevi davvero di avere il potere di fermarmi?” disse con disprezzo. “Hai sempre avuto paura di me, Albus, perché in fondo hai sempre saputo che sono più abile.”
Silente lo fissò, e per un momento sembrò che gli occhi gli si riempissero di lacrime. “Non ho mai avuto paura di te, Gellert,” rispose con voce calma. “Avevo paura di me stesso.”
E in quell’istante, Silente compì l’ultimo incantesimo. Non fu un attacco violento, ma una magia che sembrava permeare l’aria attorno a Grindelwald, avvolgendolo in un vincolo che nessuna forza oscura poteva spezzare. La bacchetta di sambuco gli scivolò dalla mano, come se avesse perso ogni volontà, e si posò tra le dita di Silente.
Grindelwald cadde in ginocchio, ansimante, con uno sguardo misto di furia e sgomento. “Tu… non hai il diritto di giudicarmi!” sibilò, la voce strozzata. Ma Silente lo guardava ormai come un uomo che ha superato la vendetta, che ha trovato in sé una forza che non credeva di avere.
“Non è un giudizio, Gellert,” rispose. “È una promessa. Per Ariana. Per tutti quelli che abbiamo ferito.”
Poi, senza aggiungere altro, gli voltò le spalle, lasciandolo in balia delle sue colpe, e si incamminò lentamente verso il margine della montagna, dove lo attendevano i suoi alleati. La bacchetta di sambuco gli pulsava tra le dita, come se una forza antica cercasse di insinuarsi in lui, ma lui resistette.
Eppure, mentre si allontanava, avvertì un oscuro senso di potere insinuarsi nella sua mente, come un sussurro che pareva provenire dalla bacchetta. Era un potere terribile e tentatore, qualcosa che lo invitava a esplorare ancora più a fondo le sue capacità, a non fermarsi mai.
In quel momento capì: la bacchetta non era un oggetto neutrale, ma un richiamo costante al potere, all’ambizione, all’ego. Lo avrebbe tenuto costantemente in bilico tra l’altruismo e il rischio di cedere, e lui avrebbe dovuto lottare con quella tentazione ogni giorno.
E mentre si allontanava dall’Untersberg, con la bacchetta in mano, sentì una voce familiare, lontana ma chiara, il sussurro di Ariana, che pareva sussurrargli un semplice pensiero: “Sii forte, Albus.”
Un sorriso amaro gli increspò le labbra. Aveva vinto, ma a un prezzo che avrebbe portato con sé per sempre.